Pinacoteca Accademia dei Concordi
Cristo portacroce
Giovanni Bellini (Venezia 1426-1516)
Olio su Tavola, 48,5 X 27 cm
Rif. FA.LU.T0539
Francesco Bartoli, nella sua preziosa descrizione delle opere d’arte presenti a Rovigo, documenta nel 1793 la presenza di un “quadro dipinto in tavola esprimente la mezza figura del Redentore portante la Croce, credesi, e sembra di Giovanni Bellini” È possibile che tale opera, allora nella casa della nobildonna Rosetta Ferrari, debba identificarsi con la presente tavola pervenuta nel 1833 all’Accademia dei Concordi con il legato Casilini. Questa primigenia e felice intuizione attributiva venne tuttavia ben presto trascurata, in quanto nel 1846 Biscaccia, nel catalogo dei dipinti dell’Accademia, la attribuiva a Leonardo da Vinci.
La critica è sempre risultata divisa sulla paternità dell’opera, soprattutto per la presenza di numerose realizzazioni dello stesso soggetto variamente assegnate a Giorgione, Bellini o ai loro seguaci. Allo stato attuale, pur con tutte le problematiche relative ai rapporti tra Giorgione e Bellini, la critica appare concorde nel ritenere che il dipinto debba attribuirsi a quest’ultimo, come risulterebbe anche da elementi emersi in occasione dell’ultimo restauro (1983-1984).
Il modello di questa versione è da identificarsi nel Cristo portacroce del Toledo Museum of Art (Ohio), databile verso il 1500 circa e che nel 1525 Michiel riferiva trovarsi nella casa di Taddeo Contarini a Venezia. Diversamente dalla versione conservata all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, dovrebbe riguardare una derivazione giorgionesca delle numerose realizzazioni di tale soggetto. Secondo Lucco (1985) è indubbio che la tavola rodigina appartiene alla produzione della maturità di Bellini che riprende, sotto l’influenza di Giorgione, un soggetto precedentemente trattato, ma con profonde varianti. Rispetto, infatti, alla versione esistente a Toledo, in questo dipinto egli accentua la fusione cromatica e tonale dell’impasto pittorico, rendendo in tal modo il volto e lo sguardo di Cristo più drammatici e penetranti, con ciò preannunciando i capolavori successivi: l’Ebrezza di Noè del Musée des Beaux Arts di Besançon e la Nuda allo specchio del Kunsthistorisches Museum di Vienna. A conferma dell’intenzionale volontà di discostarsi dal modello originale, l’autore agisce anche drasticamente sul formato dell’opera mediante la riduzione di parte della croce e della stessa figura di Cristo, pervenendo così a restringere il campo dell’immagine, a eliminare ogni particolare di abbellimento e con ciò a esaltare l’importanza drammatica della figura umana del Salvator Mundi. In tal modo l’isolamento di Cristo appare completo: l’osservatore rimane solo a compiangerlo a parteciparne il dolore e a condividerne la pena.
Questa enfasi belliniana sulla vulnerabilità della figura divina rispecchia la diffusione a Venezia di quella spiritualità francescana che dibatteva in quegli anni i temi dell’Incarnazione e della natura umana o divina di Cristo.